A questo punto, con buona probabilità vi starete chiedendo: a cosa serve tutto questo?
Ecco qualche esempio pratico.
L'immagine seguente è stata scattata alla massima apertura consentita dall’obiettivo utilizzato, ovvero f/2.8. Come potete notare, la zona di massima nitidezza è piuttosto ridotta.

Chiudendo il diaframma a f/11 — valore al quale questo obiettivo offre le migliori prestazioni ottiche — si ottiene un aumento della profondità di campo apparente, con un conseguente ampliamento dell’area percepita come nitida e leggibile.

Tuttavia, se ingrandiamo le estremità del fotogramma, ci accorgiamo che ciò che a prima vista sembrava nitido, in realtà non lo è: risulta comunque sfuocato, sebbene meno rispetto allo scatto a f/2.8.


Applicando invece la Regola di Scheimpflug, il risultato cambia radicalmente: la profondità di campo non è più solo apparente, ma reale. L’unico vero limite diventa la risoluzione del sensore digitale. Più è elevata, maggiore sarà il livello di dettaglio fine che si riesce a catturare — a patto, ovviamente, che anche l’obiettivo abbia un alto potere risolvente.
Per questa dimostrazione ho utilizzato una vecchia mirrorless Sony Nex-5, dotata di un sensore da 14,2 megapixel, prodotta tra il 2010 e il 2012.



Il vantaggio pratico? Realizzare meno scatti, ma con un numero significativamente maggiore di dettagli utili. Il vero limite diventa solo la risoluzione del sensore. Il risultato: si lavora con maggiore velocità, precisione ed efficienza.
In altre parole: massima resa, minima fatica.